Scoperto un meccanismo di tossicità della L-DOPA

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 09 novembre 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Quando fu introdotta in terapia la L-DOPA (levodopa) per il trattamento della malattia di Parkinson, in quanto precursore della deficitaria dopamina in grado di attraversare la barriera ematoencefalica ed essere decarbossilata nel cervello con produzione della catecolamina e scomparsa dei sintomi, sembrò quasi un miracolo, e il modello concettuale di questa prima cura efficace di una malattia neurodegenerativa assurse al rango di paradigma per la ricerca terapeutica. Nonostante i limiti e gli effetti collaterali, attualmente la L-DOPA rimane l’agente più efficace nella terapia dei disturbi causati dalla perdita dei neuroni dopaminergici nigro-striatali, anche in parkinsonismi in fase molto avanzata, con un’azione più potente degli agonisti dopaminergici (bromocriptina, lisuride, ropinirolo e pramipexolo) e ottimizzata dall’associazione con inibitori periferici delle decarbossilasi, quali benserazide e carbidopa.

Questo trattamento non può evitare i danni che la malattia di Parkinson ha in comune con molti altri processi patologici neurodegenerativi, quali la disfunzione mitocondriale, l’alterazione della configurazione di proteine e lo stress proteotossico. Purtroppo, recenti evidenze hanno dimostrato che la L-DOPA può avviare il misfolding proteico mediante la similarità con l’amminoacido L-tirosina, che comporta errori casuali nell’aminoacilazione, con la conseguenza dell’erroneo inserimento nella catena polipeptidica delle proteine della L-DOPA in luogo della tirosina. Questo problema è stato affrontato in uno studio condotto da Giannopoulos e colleghi, che hanno scoperto un meccanismo di tossicità della L-DOPA.

(Giannopoulos S., et al. L-DOPA causes mitochondrial dysfunction in vitro: a novel mechanism of L-DOPA toxicity uncovered. The International Journal of Biochemistry & Cell Biology – Epub ahead of print doi: 10.1016/j.biocel.2019.105624, 2019).

La provenienza degli autori è la seguente: Neurotoxin Research Group, School of Life Sciences, Faculty of Science, University of Technology, Sidney (Australia).

Alcuni anni fa ho così introdotto la malattia di Parkinson in una recensione:

In questo modo nel 1817 James Parkinson descrisse le caratteristiche sintomatologiche salienti del disturbo neurologico denominato con il suo eponimo e definito “morbo”: movimenti involontari con carattere di tremore, accompagnati da diminuzione della forza, non rilevabili nelle parti del corpo a riposo e nemmeno in quelle sostenute; una tendenza alla flessione in avanti del tronco e a passare da una deambulazione normale a un passo di corsa, con conservazione delle facoltà intellettive.

A duecento anni di distanza questa descrizione clinica è sostanzialmente valida, anche se può essere integrata da elementi tratti da una più precisa semeiotica di osservazione: il tremore[1], ad esempio, è evidente nella mano ferma non trattenuta dall’altra mano o impegnata ad afferrare, e si distingue dal tremore di origine cerebellare che si accentua nello sviluppo intenzionale dell’azione; la conservazione delle facoltà intellettive è una caratteristica che bene si spiega sulla base di una degenerazione in gran parte confinata alla componente originata dalla parte compatta della sostanza nera del sistema nigro-striatale, ma l’associazione di un decadimento cognitivo che evolve in un quadro di demenza è meno rara di quanto si ritenesse un tempo[2]. In realtà, la descrizione proposta da James Parkinson nel suo primo saggio An Essay on the Shaking Palsy (1817) presenta qualche difetto, per certi versi sorprendente, perché riguarda segni ben evidenti e poi ritenuti essenziali per la diagnosi in quella stessa epoca: la rigidità e il rallentamento motorio, ad esempio, non sono menzionati, mentre si enfatizza una perdita di forza muscolare che non è tipica della malattia. Anche la definizione, che compare in latino per la prima volta nel trattato Diseases and Derangements of the Nervous System di Marshall Hall (1841), ossia paralysis agitans, sarà presto criticata, perché è evidente che il deficit motorio è dovuto ad ipocinesia-acinesia e non a paralisi; tuttavia l’uso sarà conservato come sinonimo di malattia di Parkinson nel corso del Novecento.

Clinicamente, oggi si indica una tetrade quale nucleo fondamentale delle manifestazioni sintomatologiche: 1) ipocinesia e bradicinesia; 2) tremore a riposo; 3) instabilità posturale; 4) rigidità cerea. Quest’ultimo sintomo si rende evidente alla visita neurologica nella flessione passiva dell’avambraccio sul braccio che, invece di verificarsi con fluida continuità presenta una lieve resistenza a tratti, come se ci fosse nell’articolazione una ruota dentata (fenomeno della ruota dentata). Quando la diagnosi non sia posta al primo sorgere di segni e sintomi neurologici, purtroppo diviene molto facile e immediata a una semplice osservazione: la postura con il busto un po’ rigido e piegato in avanti, i passi piccoli e le scosse evidenti all’estremità degli arti superiori a riposo, costituiscono un’evidenza patognomonica.

La storia naturale della malattia di Parkinson, se si accetta la tendenza clinica ancora prevalente di considerarla una categoria neurologica singola, includendo tutte le forme familiari e sporadiche, fa registrare un inizio fra i 45 e i 70 anni, con picchi di insorgenza nella sesta decade e, quale assoluta rarità limitata ai casi di alcune gravi forme familiari, la comparsa prima dei 30 anni.

In realtà, come abbiamo avuto modo di sottolineare in molte occasioni, quando segni e sintomi sono clinicamente rilevabili si è già perso più del 70% della dopamina striatale, che corrisponde alla perdita del 50% circa dei neuroni dopaminergici della parte compatta del nucleo mesencefalico detto sostanza nera (substantia nigra). Nella fase iniziale della degenerazione la perdita delle sinapsi riguarda selettivamente l’area motoria striatale costituita dal putamen posteriore; col progredire della degenerazione l’interessamento diviene sempre più esteso. La perdita delle sinapsi dopaminergiche dello striato, conseguente alla distruzione dei neuroni mesencefalici che le formano con i loro assoni, determina la perdita di spine dendritiche da parte dei neuroni riceventi, e lo sviluppo di altre alterazioni che contribuiscono ai sintomi non motori delle fasi più avanzate del decorso patologico.

La malattia di Parkinson, seconda per frequenza solo alla malattia di Alzheimer tra i processi neurodegenerativi dell’età adulta, si presenta nella massima percentuale di casi in forme ad eziologia non determinata (sporadiche) la cui genetica, oggetto di intensi studi, appare complessa e multiforme; nozioni precise si hanno invece per le rare forme monogenetiche, distinte in autosomiche dominanti e autosomiche recessive[3]. Lo studio di queste forme ha fornito notevoli contributi alla conoscenza della patologia molecolare anche per gli aspetti comuni alle forme sporadiche. In tutte le forme, il trattamento d’elezione rimane quello con L-DOPA e inibitori periferici delle decarbossilasi.

Ma torniamo allo studio qui recensito.

Giannopoulos e colleghi hanno analizzato l’impatto che la formazione di catene polipeptidiche contenenti L-DOPA può avere in vitro sulla funzione di cellule di neuroblastoma umano (SH-SY5Y). La sperimentazione ha rivelato che anche in presenza di antiossidanti c’era 1) un significativo accumulo di ubiquitina citosolica nelle cellule trattate con DOPA; 2) un’accresciuta espressione (iper-regolazione) dei componenti del sistema di degradazione endosomiale-lisosomiale; 3) cambiamenti deleteri della morfologia mitocondriale; 3) marcato declino della funzione dei mitocondri.

Esperimenti di verifica hanno dimostrato che gli effetti prodotti sulla funzione mitocondriale dall’incorporazione della L-DOPA nella struttura molecolare delle catene polipeptidiche non si generavano con la D-DOPA, lo stereoisomero del tradizionale farmaco antiparkinson che non può essere inserito nelle proteine. I ricercatori hanno accertato di poter proteggere pienamente le cellule dagli effetti indesiderati della levodopa mediante un trattamento con L-tirosina, in tal modo confermando la responsabilità nello sviluppo degli effetti citotossici rilevati dell’incorporazione anomala del farmaco in luogo della tirosina nelle catene polipeptidiche.

Su questa base, Giannopoulos e colleghi propongono la sperimentazione clinica di un trattamento con L-tirosina, che dovrebbe controbilanciare se non eliminare gli effetti citotossici della L-DOPA.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-09 novembre 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Nella maggior parte dei pazienti la frequenza del tremore è stimata in 4-5 scosse al secondo, ma in alcuni appare più rapida e raggiunge le 7-8.

[2] Note e Notizie 02-07-11 Origine delle oscillazioni beta patologiche nel Parkinson.

[3] Numerose volte, in passato, abbiamo dato ragguagli sui principali esiti di questi studi; pertanto, si invita alla lettura delle numerose recensioni che compaiono nelle “Note e Notizie”.